La storia di Enzo

Marzo 2, 2018

Niente è per niente, ne sono convinto. Niente.Anche quando non sembra, anche quando non lo vedi, è tutto un lungo meraviglioso arrampicarsi per giungere dove sei.Niente accade per niente.Adesso lo so. Avevo 14 anni quando la casa dove abitavamo ha cominciato a cadere lentamente in pezzi.“È pericolante, il palazzo è inagibile” ci dicono.Tutti stretti, tra […]

Niente è per niente, ne sono convinto.

Niente.
Anche quando non sembra, anche quando non lo vedi, è tutto un lungo meraviglioso arrampicarsi per giungere dove sei.
Niente accade per niente.
Adesso lo so.

Avevo 14 anni quando la casa dove abitavamo ha cominciato a cadere lentamente in pezzi.
“È pericolante, il palazzo è inagibile” ci dicono.
Tutti stretti, tra la cucina e il salotto.
Papà ci guarda e ci dice che non c’è soluzione, per un po’ andiamo a vivere con sua sorella, in un luogo incastrato tra due periferie, non abbastanza vicino da essere città, non abbastanza lontano da essere altrove.
Papà fa l’imbianchino, si impegna, colora questa casa triste e non è più un luogo grigio.
Vado a piedi a Scuola e lungo la strada mi guardo intorno.
Conosco qualcuno, camminano con me.
La sera usciamo, il quartiere all’improvviso sembra meno buio e squallido.
Passa un anno o poco più.
La convivenza tutti stretti, tutti vicini, in una casa che non è nostra diventa difficile.
Si torna a casa, mi dice mamma.
Torniamo dove sei nato, al Rione Sanità.

Da piccolo osservavo il mare, voglio lavorare lì, dicevo.
Voglio cercare la rotta giusta e governare la barca.
“Il liceo nautico”, dice qualcuno, deve fare il nautico.
È estate, conosco un marinaio, mi racconta della vita nell’oceano, sei mesi a terra e sei mesi in mare.
Sento una morsa stringere lo stomaco.
La mia barca deve avere una rotta fissa, mi dico.
Non è questo che voglio.
Niente accade per niente, ora ne sono sicuro.
A settembre guardo mamma e le dico che ho cambiato idea, che il mare che cerco è a terra.
Non significa niente in quel momento.
Ma niente accade per niente.

A scuola conosco Salvatore.
Andiamo su e giù, nel rione che sentiamo casa.
È una cosa difficile da spiegare a chi è nato altrove.
Le strade, i vicoli, le piazze sono il prolungamento di casa, camera, letto.
Non c’è confine, non c’è differenza.
Siamo in due, poi tre, quattro, sei.
La mia paranza, la chiamo.
Afferriamo la vita con i palmi aperti, la mordiamo, con una fame che mai ho avvertito più.
A scuola ci bocciano, “questi ragazzi sono tremendi” dicono i professori, “non stanno mai fermi”.
Avevamo fame, capisco adesso.
Fame di qualcosa che nom sapevo definire.
Un giorno papà mi guarda negli occhi e mi dice “ho avuto un posto come guardiano in un museo, mò non devi sbagliare, ora devi fare il bravo”.
Niente accade per niente, lo ripeto.
Quella frase segna il primo confine della mia vita, tra quello che è possibile e quello che non va fatto.

C’è un sacerdote nuovo al Rione Sanità, mi dicono.
Vieni con noi, stiamo insieme.
Giochiamo a pallone, a basket.
Pare che questo sacerdote abbia la pazza idea di organizzare un viaggio.
Ha raccolto dei soldi, ci porta lontano, andiamo in terra Santa.
Ho scoperto, anni dopo, che quel viaggio aveva un senso preciso, serviva a rendere delle persone un gruppo, serviva a insegnarci a osservare davvero.
Siamo in una terra lontana, ci allontaniamo dal gruppo per un po’, seguiamo un signore conosciuto lì per caso, sembra voglia venderci qualcosa.
Prima di allontanarci padre Antonio ci guarda “se fate tardi all’appuntamento vi lascio qui ci dice”.
Crediamo scherzi, ci distraiamo, facciamo tardi, tardissimo.
Il pullman è partito.
In una lingua che non esiste cerchiamo un taxi, un pullman, qualsiasi cosa.
Raggiungiamo gli altri dopo molte ore, Antonio ci guarda e ci dice “siete venuti dall’altra parte del mondo e vi state comportando esattamente come a casa. Sta a voi scegliere ora se aprire gli occhi o continuare a non vedere”.
Una frase detta per caso che non ho mai dimenticato.
Niente è per niente.
Voglio vedere, mi dico, voglio trovare il mio mare sulla terra.

Tornati a casa cominciamo a lavorare insieme, vogliamo mostrare agli altri la magia del nostro Rione. Cominciamo organizzando piccole visite guidate nelle catacombe di San Gaudioso.
“Dobbiamo costituire una cooperativa” ci dice Antonio, “dobbiamo lavorare per costruire”.
Come la chiamiamo?
Ci guardiamo, siamo noi, siamo sempre noi.
“La paranza” diciamo.
Eccola là, la mia prima rotta in mezzo al mare.

2 marzo 2018

Niente è per niente, ne sono convinto.

Niente.
Anche quando non sembra, anche quando non lo vedi, è tutto un lungo meraviglioso arrampicarsi per giungere dove sei.
Niente accade per niente.
Adesso lo so.

Avevo 14 anni quando la casa dove abitavamo ha cominciato a cadere lentamente in pezzi.
“È pericolante, il palazzo è inagibile” ci dicono.
Tutti stretti, tra la cucina e il salotto.
Papà ci guarda e ci dice che non c’è soluzione, per un po’ andiamo a vivere con sua sorella, in un luogo incastrato tra due periferie, non abbastanza vicino da essere città, non abbastanza lontano da essere altrove.
Papà fa l’imbianchino, si impegna, colora questa casa triste e non è più un luogo grigio.
Vado a piedi a Scuola e lungo la strada mi guardo intorno.
Conosco qualcuno, camminano con me.
La sera usciamo, il quartiere all’improvviso sembra meno buio e squallido.
Passa un anno o poco più.
La convivenza tutti stretti, tutti vicini, in una casa che non è nostra diventa difficile.
Si torna a casa, mi dice mamma.
Torniamo dove sei nato, al Rione sanità.

Da piccolo osservavo il mare, voglio lavorare lì, dicevo.
Voglio cercare la rotta giusta e governare la barca.
“Il liceo nautico”, dice qualcuno, deve fare il nautico.
È estate, conosco un marinaio, mi racconta della vita nell’oceano, sei mesi a terra e sei mesi in mare.
Sento una morsa stringere lo stomaco.
La mia barca deve avere una rotta fissa, mi dico.
Non è questo che voglio.
Niente accade per niente, ora ne sono sicuro.
A settembre guardo mamma e le dico che ho cambiato idea, che il mare che cerco è a terra.
Non significa niente in quel momento.
Ma niente accade per niente.

A scuola conosco Salvatore.
Andiamo su e giù, nel rione che sentiamo casa.
È una cosa difficile da spiegare a chi è nato altrove.
Le strade, i vicoli, le piazze sono il prolungamento di casa, camera, letto.
Non c’è confine, non c’è differenza.
Siamo in due, poi tre, quattro, sei.
La mia paranza, la chiamo.
Afferriamo la vita con i palmi aperti, la mordiamo, con una fame che mai ho avvertito più.
A scuola ci bocciano, “questi ragazzi sono tremendi” dicono i professori, “non stanno mai fermi”.
Avevamo fame, capisco adesso.
Fame di qualcosa che nom sapevo definire.
Un giorno papà mi guarda negli occhi e mi dice “ho avuto un posto come guardiano in un museo, mò non devi sbagliare, ora devi fare il bravo”.
Niente accade per niente, lo ripeto.
Quella frase segna il primo confine della mia vita, tra quello che è possibile e quello che non va fatto.

C’è un sacerdote nuovo al rione sanità, mi dicono.
Vieni con noi, stiamo insieme.
Giochiamo a pallone, a basket.
Pare che questo sacerdote abbia la pazza idea di organizzare un viaggio.
Ha raccolto dei soldi, ci porta lontano, andiamo in terra Santa.
Ho scoperto, anni dopo, che quel viaggio aveva un senso preciso, serviva a rendere delle persone un gruppo, serviva a insegnarci a osservare davvero.
Siamo in una terra lontana, ci allontaniamo dal gruppo per un po’, seguiamo un signore conosciuto lì per caso, sembra voglia venderci qualcosa.
Prima di allontanarci padre Antonio ci guarda “se fate tardi all’appuntamento vi lascio qui ci dice”.
Crediamo scherzi, ci distraiamo, facciamo tardi, tardissimo.
Il pullman è partito.
In una lingua che non esiste cerchiamo un taxi, un pullman, qualsiasi cosa.
Raggiungiamo gli altri dopo molte ore, Antonio ci guarda e ci dice ” siete venuti dall’altra parte del mondo e vi state comportando esattamente come a casa. Sta a voi scegliere ora se aprire gli occhi o continuare a non vedere”.
Una frase detta per caso che non ho mai dimenticato.
Niente è per niente.
Voglio vedere, mi dico, voglio trovare il mio mare sulla terra.

Tornati a casa cominciamo a lavorare insieme, vogliamo mostrare agli altri la magia del nostro Rione. Cominciamo organizzando piccole visite guidate nelle catacombe di San Gaudioso.
“Dobbiamo costituire una cooperativa” ci dice Antonio, “dobbiamo lavorare per costruire”.
Come la chiamiamo?
Ci guardiamo, siamo noi, siamo sempre noi.
“La paranza” diciamo.
Eccola là, la mia prima rotta in mezzo al mare.

Parto, mi dico.
Vado a Londra e imparo l’inglese così quando torno sono più bravo, cosi servo ad uno scopo.
Parto e non so quando torno, ma torno, lo giuro, torno.
Lavoro in una gelateria e studio l’inglese e i giorni che all’ inizio rotolano finiscono per galoppare e passa un anno.
È tutto nuovo, è tutto veloce, è tutto semplice.
Se restassi, mi dico?
Il giorno in cui il mio capo mi propone di farmi dirigere un nuovo negozio ecco una telefonata da casa.
“Enzo, abbiamo vinto il bando Fondazione Con il Sud! Abbiamo in gestione le catacombe! Torna! Ce l’abbiamo fatta! Torna!”
Mi si gelano i pensieri.
Rispondo che ho bisogno di pensare, che non so che fare.
Non capiscono ma non dicono nulla.
Prenditi il tuo tempo, noi siamo qui.
Passano 25 giorni, rifletto, su e giù, avanti e indietro.
Restare o tornare.
Una notte, nel letto, una risposta luminosa.
“Se a casa tutto va come spero voglio essere tra quelli che hanno visto il sogno nascere”.
Improvvisamente, non ho più un dubbio.
Niente succede per niente.

Una volta a casa le cose cominciano a girare vorticose.
Mi iscrivo all’ università, scienze del turismo.
Studio e lavoro e la nostra magnifica creatura prende lentamente forma.
Cresciamo, gli stessi amici che giravano in un pullman sgangherato in una terra lontana ora dirigono insieme un progetto.
E lo sentiamo nostro.
Con la pelle e il cuore.

Un giorno, all’improvviso, sento tremare le gambe e il cuore.
Papà ha 56 anni e ha un cancro che velocemente lo divora.
Ha lavorato per troppi anni con sostanze tossiche, dicono i medici.
La malattia divora il corpo e i pensieri come un mostro sempre affamato.
L’ultima notte che passiamo insieme sono con lui in ospedale, sento che sta andando via, sento che è arrivato il momento di salutarci.
Lo stringo forte e mi ricordo di una promessa fatta tempo prima.
Faccio il bravo, papà, te lo prometto.

La mia paranza, la mia gente, mi tiene stretto e cerca di far combaciare i pezzi.
Pochi giorni dopo ricevo una telefonata, sono stato scelto fra le varie cooperative sociali per partecipare ad un corso di formazione in management e leadership in America, in un college prestigioso.
Non parto, dico.
Non dopo papà, non posso lasciare la mia famiglia da sola.
La mia paranza mi ascolta e senza dirmelo accetta a mio nome.
“Devi andare” mi dicono.
Cerca la rotta.
Noi siamo qui, ci pensiamo noi.

In una terra straniera, in un luogo lontano, durante una lezione incastro lo sguardo con quello di una donna che dopo qualche mese mi ha seguito dall’altra parte del mondo.
Sabina, moldava, mi ha insegnato cosa significa amare e il potere meraviglioso del cambiare tutte le carte in tavola e dello stravolgere i piani.
Due anni dopo è diventata mia moglie.
Niente accade per niente, ve l’ho detto.

Il giorno dopo la mia laurea nasce Maria Cristina, la mia piccola che adesso ha due anni.
L’altro giorno l’ho osservata mangiare un’arancia e le ho sussurrato tra i denti:
“Un uomo molto coraggioso una volta mi ha detto che per realizzare qualcosa servono tre cose.
Cuore, mente e volontà. Adesso, amore mio, ho tutto quello che serve”.

Sono socio fondatore della cooperativa la paranza e responsabile della comunicazione.
Quando sono tornato da Londra eravamo in sei e il sogno sembrava un folle capriccio.
Quest’ anno,10 anni dopo, le catacombe hanno raggiunto 100 mila visitatori e la cooperativa ha 27 soci.
Niente accade per niente.
Mi chiamo Enzo, ho 32 anni, e questa è la mia storia.
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Testo di Chiara Nocchetti