La storia di Raffaele

Febbraio 9, 2018

Una notte di 15 anni fa ho smesso di parlare. Hanno preso mio padre nel sonno, dormivo accanto a lui.Un’altra condanna per un altro reato, l’ultimo di un’infinita serie che lo ha tenuto lontano per 30 anni.Ricordo il rumore dei passi e le grida, mio padre che si alza di scatto e sparisce nella notte.Mia […]

Una notte di 15 anni fa ho smesso di parlare.

Hanno preso mio padre nel sonno, dormivo accanto a lui.
Un’altra condanna per un altro reato, l’ultimo di un’infinita serie che lo ha tenuto lontano per 30 anni.
Ricordo il rumore dei passi e le grida, mio padre che si alza di scatto e sparisce nella notte.
Mia madre piange.
Avevo quattro anni e ho smesso di parlare.
Nella mia testa tutto aveva un senso ed un ordine ma nulla si tramutava in parole.
Mi sembravano pericolose e scomode.
Il silenzio era l’unica cosa che potevo controllare.
L’unica, nell’infinito caos che mi circondava.

Mio padre non c’è, mia madre non lavora, mia sorella è piccola.
Qualcuno ci deve pensare, qualcuno deve farcela.
Comincio a 12 anni, lavoro al bar, in pizzeria, in un negozio.
A testa bassa, lentamente.
Con un cognome che mi pesa in testa come un macigno, lo sanno tutti chi è mio padre, lo sanno tutti a chi appartengo.
Il sangue, nella mia terra, non si lava via.

Ci provano a farmi parlare, le parole non escono.
Rotolano, si incastrano, mi franano fra i denti.
Balbetto, mi blocco.
Sono stanco, come un maratoneta in una corsa infinita.
Controllo il silenzio ma non controllo il rumore.
E quello che non controllo finisce per controllare me.

Mio padre esce, dopo una condanna lunga e pesante come una catena di metallo.
Torna a casa.
Mia mamma piange.
Mia sorella non lo conosce.
Respiro lentamente, è sangue mio, mi dico, devo dargli una possibilità.
Lo trovo steso sul letto, il giorno di Natale.
La testa all’indietro, le braccia lunghe.
Ha ricominciato a farsi, eroina e metadone.
Lo caccio via, le parole escono forti come un urlo antico, è la pancia che parla.
Mia sorella non deve vederlo così, mia madre non può vederlo così.
Vai via, via.
Sangue, sangue mio.
Via.

Due giorni dopo lo troviamo morto sotto la metro di piazza Cavour.
Sangue, sangue mio.
Come si fa a lavarti via?

Negli stessi giorni, nelle stesse ore, mia madre finisce in ospedale.
Ha un cancro alla gola, maligno e crudele.
Entra in sala operatoria.
Salva lei, salva il mio sangue, non cancellarlo via.
Seppellisco mio padre da solo, mamma è all’ospedale.
L’intervento è andato bene, mi dicono i medici, siete fortunati.
Rido, di questa parola nuova che non conosco e non mi appartiene.

È notte e tira un vento caldo.
È settembre, ottobre è ancora lontano e tutto sembra ancora possibile.
Sono in piazza alla Sanità, molti volti accanto a me.
Cadono veloci e improvvisi, 36 proiettili si abbattono su di noi.
Sembra una pioggia di sabbia e di lacrime.
Corrono tutti, qualcuno cade.
Genny, davanti a me, crolla sotto una raffica immobile.
Il rumore, ancora una volta, prende il sopravvento.
Corro veloce, come non ho mai corso in vita mia.
Salgo a casa e prendo delle pillole per dormire.
Non scendo per un mese, non metto piede neanche ai funerali.
La paura mi divora la pancia e mi incatena i pensieri.
Ho bisogno di silenzio e di nessuna parola.

Sono in macchina, qualche mese dopo.
Un amico mi chiede di quella sera.
“Se avessi cacciato la pistola io, gli dico, sarebbe andata diversamente”
Lo dico perché è la cosa giusta da dire, quando cresci in una terra di sangue e lacrime.
Lo dico per cercare rispetto, lo dico per sembrare forte.
Lo dico perché le parole mi scappano veloci e io l’ho detto che preferisco il silenzio.

Da quella frase in quella macchina passa un anno.
Arrivano la sera a casa, mi portano in questura.
Possesso di armi da fuoco, questa è l’accusa.
In quella macchina c’era un microfono e la domanda non era poi casuale.
L’arma non l’hanno trovata, la pistola che esiste solo nelle parole di chi trema e che non conosce nulla di diverso per apparire più forte.
Mi chiamano per cognome, sappiamo a chi appartieni, mi dicono.
Eccola qui, la macchia del sangue.
Non va via, non sparisce.

Nove mesi a Poggioreale per un reato che non ho commesso e non ho capito.
Mi accusano di avere un ruolo nell’omicidio di Genny.
Perché non sei sceso di casa?
Non eri ai funerali e non eri a testimoniare?
Sappiamo a chi appartieni, mi dicono.

Pochi giorni prima dell’arresto è nato mio figlio e ho scoperto la potenza dell’essere padre.
Prendermi cura di lui e della mia compagna ha dato senso ai giorni del dolore e da senso al mio essere qui.
È per loro e grazie a loro che sono qui e stringo i denti.

Ora lavoro alle catacombe di San Gennaro come misura alternativa al carcere e fra qualche mese ho un’udienza in tribunale.
Proverò a spiegare la macchia del sangue e la colpa delle parole veloci.
Proprio io, che non ho mai voluto parlare.
Sapevo che mi avrebbero tradito prima o poi.
Sapevo che forse avrei dovuto stare zitto.

Mi chiamo Raffaele, ho 22 anni e questa è la mia storia.

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Testo di Chiara Nocchetti